mercoledì 12 ottobre 2011

La fotografia... al di là dell'immagine

” Ogni volta che viaggio, che cammino o che semplicemente vivo mi capita di osservare il mondo attraverso un inquadratura e quando vedo un qualcosa con i miei occhi che mi emoziona cerco di riprodurlo in uno scatto."

Una foto è un’immagine che rappresenta colui che fotografa e ciò che è stato fotografato.
La scelta dell’immagine dice molto sul suo autore, qualsiasi soggetto sia: volto, paesaggio, evento, animale…è come se colui che fotografa fosse dentro l’immagine pur non essendo visibile.
E’ un’espressione di sé stessi, una parte o diverse parti di sé che escono da noi per imprimersi su un’immagine che parla. Parla su come ci sentiamo in quel preciso momento, perché abbiamo scelto un soggetto piuttosto di un altro, un’inquadratura o dei colori. L’immagine scattata ci dice ciò che ci piace, chi siamo, la capacità che abbiamo nel cogliere lo stato d’animo di un volto creando una sorta di empatia con esso.
Questa non è solo professionalità, ma è soprattutto capacità comunicativa, capacità di cogliere ad ogni scatto emozioni intense, dove la luce e i colori si imprimono sull’immagine definendola quasi un qualcosa di “vivo”e di reale che ci permette di entrare in quello spazio definito e farne parte.
Ricordo la mostra fotografica a palazzo della Ragione a Milano di Steve Mccurry, ogni sua foto suscita in chi la guarda un impatto emotivo molto forte.

In ogni scatto c’è:
- la ricerca dell’ emotività profonda, dell’intimità umana e della natura in luoghi duri e difficili devastati dalla guerra.
- Il suo aspettare che l’anima delle persone esca da sé per “fissarla”.
Questa non è solo capacità tecnica è il suo modo di esser persona, la sua sensibilità e empatia verso l’altro.

Nel mio ultimo post sulla femminilità, tra tante foto trovate che potevano rappresentare il mio pensiero ho scelto non a caso quella del fotografo Massimo Mannucci , la sua foto traduceva in immagine tutto ciò che io avevo scritto, guardandola parlava da sé; l’eleganza, la semplicità, la dolcezza dell’esser femminile era lì! Avrei potuto pubblicare la foto senza scrivere nulla e sarebbe stata la stessa cosa…..sicuramente la sua non è stata una scelta casuale. Quando dico che uno scatto esprime anche la personalità o lo stato d’animo del suo autore, intendo proprio questo.
Scegliere ad esempio, di fotografare un’aquila in volo, simbolicamente riporta ad una persona che punta alla realizzazione della mente, che va oltre ciò che è terreno e futile per raggiungere le alte sfere dell’intelletto e la spiritualità. L’aquila è un rapace regale, nobile che domina il mondo dall’alto vivendo in libertà.… al di sopra delle parti.
Leggere un volto o uno sguardo fotografato significa comprendere, molto più che dal vivo, la personalità e le emozioni vissute in quel momento; l’ immagine “ferma”e “fissa” ciò che è nascosto….
Per quanto di altro genere perché studiate e mirate verso uno scopo, le foto che rappresentano un evento, una pubblicità , sono comunque collegate all’autore; ne esce la capacità creativa e l’intuito….non lo stato d’animo

lunedì 26 settembre 2011

Convegno internazionale 15-16 ottobre 2011 Firenze - Cinema Teatro Odeon

Convegno internazionale "PSICHE E SPIRITUALITÁ" con JODOROWSKY, NARANJO, LA PORTA, MELUZZI e altri
Con la partecipazione di: Alejandro JODOROWSKY, Claudio NARANJO, Gabriele LA PORTA, Alessandro MELUZZI, Enrico CHELI, Franco CRACOLICI, Fabio PIANIGIANI, Angela TERZANI, Elena DRAGOTTO, Mimmo TRINGALE, Gioacchino ALLASIA, Antonio BERTOLI, Espedito DE LEONARDIS, Alberto LOMUSCIO.
Firenze - Cinema Teatro Odeon, 15/16 ottobre 2011
Informazioni e iscrizioni: www.compagniadeltao.it - www.holiversity.it


E’ possibile ricongiungere in modo olistico psiche e spiritualità, per offrire agli esseri umani una visione più globale di ciò che veramente sono?
Esiste un ponte di collegamento tra la visione scientifica e quella spirituale che ci aiuti a comprendere dimensioni quali: l'intuizione, l'ispirazione, la pace interiore, l'amore incondizionato, la beatitudine, la disidentificazione dall'ego, il senso di unità con gli altri, con la natura e con tutto ciò che esiste?



Alejandro Jodorowsky

Alejandro Jodorowsky, nato in Cile da immigrati ebreo-ucraini, si è trasferito dal 1953 a Parigi, dove ha fondato con Fernando Arrabal e Roland Topor il movimento diteatro "panico". E’ un artista poliedrico del tutto sui generis: attore, regista cinematografico (El Topo, 1971, La Montagna Sacra, 1973, Santa sangre-Sangue santo, 1988, sono alcuni dei suoi capolavori), drammaturgo autore di pantomime e pièce teatrali (ricordiamo La saga della Casta dei Meta-Baroni, disegnata da Juan Gimenez, insieme alla trilogia dei Tecnopadri e il ciclo dell'Incal), poeta, romanziere e sceneggiatore di fumetti. Nella sua lunga carriera ha lavorato con grandi personaggi come Jean Giraud, più noto con lo pseudonimo di Moebius, e Salvador Dalì.
Uno degli aspetti più affascinanti dell’attività di Jodorowsky riguarda la pratica della psicomagia attraverso l’elaborazione di un modo nuovo di entrare in contatto con l'inconscio. Nel libro Psicomagia (Feltrinelli) sotto forma di intervista, l’autore ripercorre le tappe principali della sua vita, sottolineando le sue esperienze di vita vissuta, fino ad arrivare alla descrizione della sua terapia, definita “panica” per dire che l'ordine del nostro universo, in apparenza così prevedibile, può venire sgretolato. E Jodorowsky, con la sua vita e le sue opere, ha sempre ricercato l'atto che destrutturi lo stato delle cose scontate “la gente desidera smettere di soffrire, ma non è disposta a pagarne il prezzo, a cambiare, a cessare di definirsi in funzione delle sua adorate sofferenze. La terapia panica vuole essere un modo, dirompente, per azzerare l'abitudine eaprire nuove porte verso una comprensione diversa dell'esistere. Perché essa funzioni, occorre crederci, e questo dogma è vero per ogni tipo di azione nel mondo”. Da anni tiene a Parigi il Cabaret Mystique, uno spettacolo a metà tra il teatrale e la terapia di gruppo, uno show di terapie lampo in una sala in cui l'energia crea rare situazioni di pathos.
sito di Alejandro Jodorowsky

domenica 7 agosto 2011

Femminilità

Foto di Massimo Mannucci
“La femminilità è una condizione intima, uno stato interiore, da leggere fra le righe, tra un portamento e un’espressione del viso, tra un discorso e un modo di camminare.”
 
È qualcosa in più… capace di rendere attraenti anche donne non bellissime. Una magia sottile, che alcune più di altre sono in grado di padroneggiare.
Una donna può essere femminile anche quando non è visibile, quando è lontana dagli sguardi altrui, perché il suo è un atteggiamento spontaneo e naturale che fa parte della sua essenza…del suo modo di essere, di muoversi e di vivere la vita. La femminilità non s’insegna, femminili non si diventa... femminili si è e basta. La femminilità dipende da quello che si ha dentro, ma non solo... ci sono tanti fattori che mescolati rendono la donna femminile. Quei gesti naturali che sono propri di una donna aggraziata, l’eleganza , il sorriso, il modo di parlare….
 
Alcune donne scambiano l’esser femminile con l’apparire, con la bellezza o con lo indossare vestiti di marca, ma il corpo non è un appendiabiti! Non basta e non serve indossare un vestito o una scarpa fashion per esser femminile, il vestito ci deve appartenere, deve “coprire” il nostro corpo quasi come una seconda pelle….che senso ha indossare un abito che non rispecchia la nostra identità?
Una donna se è femminile sta bene con tutto perché l’eleganza è dentro di lei, è nella cura che ha di sé, nell’importanza che da al dettaglio, al profumo che emana ….è qualcosa di non definibile, ma che esiste.
Ogni donna ha “in sé” la sua femminilità, il problema è che sembra che a poche interessi tirarla fuori, renderla visibile! E’ la parte più bella dell’esser donna eppure, tante donne pare se ne siano dimenticate. Basta osservarne il portamento o la camminata…per notare come alcune di esse si trascinano o camminano come se avessero degli scarponi da sci ai piedi! Preferiscono apparire aggressive, forse la dolcezza è un difetto? Una donna dolce può esser anche aggressiva se è necessario.
Il femminile è un dono prezioso che spesso giace addormentato nella parte più intima della donna e che richiede di esser risvegliato; non attraverso scollature o comportamenti da civetta, ma attraverso un atteggiamento “delicato” che faccia emergere la parte vera e seducente della donna da cui deriva il suo potere.
La donna oggi ha sepolto la femminilità in nome della parità e della presunta libertà conquistata. Negare la femminilità ci fa sentire pari all’altro sesso? Ma,perché questa continua esigenza di parità o superiorità? La donna e l’uomo sono individui diversi e così deve essere; questo non significa che la donna sia più debole anzi, a volte è il contrario.
L’importante è che ognuno accetti la propria individualità. Ci sono caratteristiche comportamentali che appartengono all’uomo e altre alla donna….
La femminilità è anche carattere, solarità e ottimismo, dolcezza e coraggio…un esempio di donna femminile? Audrey Hepburn, l’icona della femminilità!






domenica 17 luglio 2011

Filsofia di vita....




Sovente la nostra mente si carica di pensieri inutili, di congetture, di ipotesi, supposizioni negative inquinando di conseguenza le nostre emozioni.

Viviamo in un mondo dove  nulla è spontaneo, ma tutto pensato, calcolato, studiato….tutto deve portarci ad un obiettivo pressoché egoistico.

Leggendo l’ultimo libro di Ludovica Scarpa, “Lo zen del gatto”, ci si rende veramente conto di quanto sarebbe positivo per l’uomo metter in atto una filosofia di vita simile a quella del gatto. I gatti appartengono solo a sé stessi, sono autonomi affettivamente, accettano le situazioni che gli capitano senza scomporsi più di tanto. Non si annoiano, hanno la capacità di “fermarsi”, di accettare e godere del silenzio e della solitudine; se si trovano in una situazione di disagio, se ne vanno…semplicemente si spostano da quel contesto.

Credo che anche noi, esseri umani, dovremmo avere la capacità di farci scivolare ciò che non è importante nella vita, senza perdere tempo in recriminazioni o rancori per cose o persone poco rilevanti evitando sofferenze inutili. Non si parla di menefreghismo, ma solo di imparare a valutare ciò che necessita un investimento delle nostre energie emotive. Una giusta scala di valori morali.

Dobbiamo sempre dimostrare di esser bravi ed efficienti in ogni azione o attività intrapresa, continuiamo a correre, a voler “fare” quasi per colmare possibili spazi vuoti dove ritrovarsi a riflettere in compagnia di noi stessi e delle nostre paure.

Ma perché poi è così dominante esser “bravi” in ogni cosa? E’ forse l’unico modo per esser considerati dalla società? Dagli altri? Non basta esser semplicemente se stessi?

Cerchiamo sempre di controllare che tutto vada come vogliamo…..non andiamo mai per il verso delle cose.

Alcune persone hanno bisogno di crearsi un malcontento lamentandosi perché non hanno ciò di cui credono di aver bisogno per poi scoprire che non è così….altri si “attaccano” al sapere per aver ragione e dominare la paura di esser più deboli non quindi per il puro piacere della conoscenza, ma per difesa….ma da cosa? Da cosa dobbiamo difenderci? “Zorro è un gatto speciale, non ha bisogno di argomenti per essere un buon gatto, lo è e basta.” Così scrive Ludovica Scarpa.

domenica 26 giugno 2011

Bambini dimenticati




Scordarsi un figlio di pochi mesi in macchina sembra impossibile. Ma succede anche a genitori più premurosi e attenti.
Troppo spesso ci fidiamo della nostra mente, crediamo che il cervello sia una macchina infallibile e instancabile, che attraverso la ragione tutto si controlla e nulla si sbaglia.
Non è sempre così.
Leggendo un articolo sui bambini “dimenticati” in auto di Gene Weingarten, The Washington Post, Stati Uniti; ci si accorge di quanto invece sia pericolosa la nostra mente se sfruttata ed utilizzata in modo scorretto.

Il profilo psicologico che si evince nella descrizione di numerosi casi di genitori che hanno perso e non ucciso un figlio perché dimenticato in auto, è quello di un padre o di una madre attenta, premurosa, più o meno abbiente, diplomata o laureata. 
Non esiste un profilo ricorrente fra genitori a cui è capitata questa tragedia.
Non è una questione di cura, di amore o non amore, ma di incapacità a “fermarsi”, a non farsi catturare da quel vortice frenetico di impegni lavorativi, carrieristici, economici e familiari che oggi la nostra società ci chiama a rispondere.
Non a caso definiamo le mamme mamme multi task; termine a prima vista positivo, di persone attive e capaci nella gestione del menage familiare, ma alle quali forse si chiede troppo. Le azioni del quotidiano per il nostro cervello diventano degli automatismi che non necessitano di memoria a breve termine, come quando percorriamo una strada conosciuta senza ricordarne il percorso ed è per questo che si cade facilmente nella distrazione.
Ma per alcuni è possibile rallentare il proprio ritmo di vita o cause contingenti non lo permettono? E ‘ possibile scegliere?
Giudicare e colpevolizzare dall ‘esterno è facile, ci fa sentire al sicuro, ci difende dal credere che ciò che è successo ad altri non possa capitare anche a noi. Le vicende descritte nell’articolo di Weingarten invece, dicono chiaramente come tragedie di questo genere possano succedere a chiunque.
Non si vuole giustificare una dimenticanza così terribile, ma solo capire, affinchè simili tragedie non si ripetano. La condanna di un genitore che ha dimenticato il proprio figlio di pochi mesi in macchina è una condanna a vita, dove la rielaborazione del lutto credo non abbia mai fine. 
L'invito è di leggere l'articolo di  Gene Weingarten.

lunedì 13 giugno 2011

Mask.....





Gigliola appare una ragazza buona, premurosa e gentile con tutti; è una di quelle persone definibili “pulite”, oneste, sensibili e comprensive.
Nonostante tutto, c’è qualcosa in lei di impenetrabile; dietro la sua affidabilità si cela un muro invisibile che blocca, impedendo a chiunque di “entrare” nel suo mondo interiore.
Dove per entrare nel suo mondo interiore non intendo violare la sua privacy o riservatezza, ma semplicemente raccontarsi, esternare i propri dubbi, esprimere le proprie preoccupazioni, narrare, se capita, episodi della propria vita.
Sempre disponibile all’ascolto, lascia che l’altra persona abbia lo spazio necessario per esprimersi senza lasciarne un po’ per sé! Altruismo?
Il suo comportamento sembra molto sincero; considera l’ amicizia una fortuna.
Questo suo atteggiamento estremamente positivo, cela dall’altro lato comportamenti che a volte denotano superficialità forse non voluta, nel senso di non riuscire a “calarsi” in realtà ovvie, quasi oggettive..
Nel suo modo di vestire è sempre molto coperta nonostante faccia caldo; specialmente la parte superiore del corpo. Indossa dolcevita o camicie ben abbottonate che non slaccia nemmeno quando la temperatura aumenta. Timidezza o il vestito serve a nascondere qualcosa di sé?
Questa è la descrizione di come, a volte, le persone vogliono apparire, ma in realtà sono molto diverse….quanti di noi indossano una maschera per poter essere accettati dalla società? O quanti la indossano per convenienza? Rimanere in superficie nella conoscenza di una persona, fermarsi all’apparire senza prenderci il giusto tempo per comprendere e sentire veramente chi abbiamo di fronte. Intrappolati nel bisogno di giudicare, capita di esse tratti in inganno e,magari soffrire per aver instaurato un legame affettivo con chi ci appariva profondo e sincero.
In realtà Gigliola non era proprio come sembrava…buona, onesta e sensibile, ma l’esatto opposto. Celava un forte opportunismo ed una scarsa capacità di instaurare legami affettivi veri. Le persone erano come gli oggetti, ogni sua conoscenza era legata ad un suo utilizzo diverso; questo le permetteva di non investire affettivamente…..innalzando intorno a sé uno scudo che la proteggeva da eventuali sofferenze o delusioni, almeno dove era possibile, ma cosa è meglio: “una vita autentica con gioie e sofferenze che aiutano a crescere interiormente con la possibilità di migliorarsi affrontando le paure che fuggiamo o una vita "altra" che mai ci dirà chi siamo veramente?”

















mercoledì 25 maggio 2011

Riflessioni sulla cura come Io/ Tu......





Se nell’aver cura si realizza il superamento di una prospettiva egoica a vantaggio di una visione universale con la “relativizzazione” di noi stessi, non si può non focalizzare l’attenzione sulla dimensione relazionale con il mondo dell’Altro.
Le relazioni che si creano tra le persone sono il risultato di uno sforzo finalizzato al prender coscienza di noi stessi, al nostro essere insieme all’altro per raggiungere quella visione universale grazie alla quale saremo capaci di metterci al posto degli altri, superando la nostra parzialità.

Parlare di relazione, prendendo coscienza di essere insieme all’altro nel senso Heideggeriano del fianco a fianco o secondo il pensiero di Levinàs del faccia a faccia, dell’Io/Tu ci permette di aprire la strada verso il confronto come scambio, con il vissuto individuale di ognuno di noi.

Il ponte che lega noi e l’altro è la relazione, non si può scindere, infatti, la cura di sé dalla cura del noi (relazionale). Attraverso lo sguardo dell’Altro ci accorgiamo che non possiamo stare soli e che per giungere ad un sé libero è necessaria la sua mediazione. Epicuro vede l’ascolto come una pratica di cura, come la sospensione di noi stessi per cogliere così “l’ essenza interiore” dell’Altro.

La relazione di cura che può nascere tra infermiere e paziente, ha delle analogie con la relazione materna, ma senza legami affettivi; le persone coinvolte sono padroni delle proprie “storie” ma, al contempo si nutrono delle storie degli altri creando così una sorta di osmosi, un’idea di relazione complementare dove il malato occupa una posizione di dipendenza verso l’infermiere visto come l’anello di congiunzione tra soggetto e medico, tra malattia e guarigione.

La capacità di andare oltre un Io (infermiere) che comunica i propri saperi unilateralmente all’Altro (paziente) visto come colui che subisce, è la base per una buona pratica di cura nella quale i singoli individui cooperano per il raggiungimento di un unico scopo: un vero processo di guarigione. Non si può curare il corpo senza curare l‘anima.

Pensare ad una vera relazione amicale è quasi utopico, l’amicizia si basa su valori che secondo me oggi, sono offuscati dalla competizione e dall’attenzione per l’individuo nella singolarità del suo essere. L’onestà, la fiducia, la sincerità sono valori impegnativi che per essere applicati ci costringono a fermarci a riflettere sul nostro Essere nel mondo, nel senso di contribuire ad un benessere relazionale che ci permette di capire e forse perdonare la persona che ci sta accanto e chiamiamo amica, ma tutto questo può creare sensi di colpa e quindi ancora una volta, portarci a guardare con consapevolezza il nostro Sé per attuare un percorso interiore volto all’autenticità del nostro modo di condurci nel mondo.

Etica della cura significa mettere continuamente sotto esame la propria vita ed esercitarsi a mantenere una direzione di pensiero ed azione conforme alla scelta esistenziale fatta in qualsiasi campo si operi: educativo, giuridico, politico, religioso.

mercoledì 18 maggio 2011

La cura come essenza d'essere.....

Tutti hanno la necessità vitale di ricevere e dare cura, poiché la cura è l’essenza d’essere, ovvero di esistere. Sembra quasi che l’individuo attraverso la cura di sé si materializzi, dia un senso al proprio essere nel mondo.

In ogni epoca gli uomini hanno cercato di rispondere alle domande sull’origine della nostra esistenza: “Da dove veniamo?” Ma è nel periodo ellenistico che lo sguardo viene spostato sul soggetto nel suo divenire: l’attenzione è rivolta non più sulla ricerca di un dove, ma su come l’uomo possa essere felice. Epicuro sostiene che “Vuota è la parola che non cura i mali dell’anima”, i filosofi ellenistici si interrogano su come l’uomo possa essere felice; iniziando a sentire il bisogno di un sé individuale di cui aver cura dove la cura è la cosa essenziale all’esistenza dell’uomo per star bene.

Heidegger sostiene che la cura di sé è il modo fondamentale dell’essere dell’esserci, è il modo attraverso il quale l’uomo può esistere, esserci, ma esserci nel senso di farne parte; formare il proprio animo attraverso un lavoro su sé stessi che coinvolga non solo il pensiero, ma anche la sensibilità, la volontà e le emozioni attraverso un continuo esercizio di rimessa in discussione di sé e del proprio rapporto con gli altri, scegliendo liberamente di essere quel “sé stesso”.

Io credo che il concetto di cura inteso da Heidegger stia riemergendo nella nostra società come un bisogno essenziale per dar un senso al nostro mondo globalizzato che si affida ciecamente alla tecnica con la convinzione di essere nel giusto, pur sentendosi un mondo miserevole in quanto privo di senso.

Prendersi cura di sé significa fermarsi, ascoltarsi ed ascoltare l’ALTRO dove l’altro può essere:la vita,le relazioni sociali, l’educazione, il desiderio, la responsabilità, il corpo e l’universo interiore al quale apparteniamo. Un percorso nella direzione della cura di sé, della consapevolezza, dell’autenticità e del confronto per interrogarsi su come si sta al mondo, cercando un senso ed imprimendo un direzione al proprio condursi è necessario come processo formativo per ogni individuo.
Parlare di una svalutazione della cura ritengo sia banale e ripetitivo.E’risaputo infatti, che nella nostra cultura c’è una svalorizzazione della cura e delle relative attività, ma il punto su cui porre l’attenzione è il perché esiste ancora questa concezione riduttiva del ruolo di chi svolge attività di cura: quale la causa e come attuare il cambiamento.

Le attività di cura sono attività che richiedono grande sensibilità e passione ed investono il lavoratore di una responsabilità che va oltre il far quadrare un bilancio economico aziendale poiché, il fulcro di tali attività non è la produzione, il progresso tecnologico, ma l’individuo nella totalità del suo essere. L’essere umano è fatto di corpo, spirito, ragione e sentimento: come possibile non elevare a figure di prestigio un’insegnante, un educatore, un infermiere?

Se questo non accade credo che la responsabilità in parte sia da attribuire al nostro sistema culturale che non ne riconosce il giusto valore.

martedì 10 maggio 2011

Il cambiamento della famiglia




Il cambiamento subito dalla società negli ultimi anni ha portato le famiglie ad una metamorfosi che spesso crea confusione nei ruoli di padre e di madre; si osservano coppie dove la madre assume sia il ruolo materno che quello paterno, portando il marito ad essere solo un componente utile a stabilire una completezza fittizia del nucleo famigliare.





Nelle generazioni precedenti, nelle famiglie patriarcali il ruolo del padre era ben definito; era colui che lavorava e portava avanti la famiglia, era l’archetipo del cacciatore. La madre era colei che si occupava dei figli e della conduzione della casa.

Oggi le donne lavorano, sono in carriera, indipendenti e autonome al punto di cadere nell’errore di sostituirsi nell’educazione dei propri figli al marito anche dove esso è presente. Madre e padre al contempo e ….la figura maschile? Dov’è? Madre e figlio inizialmente sono tutt’uno, ma il distacco è necessario per l’equilibrio della famiglia. Una buona madre deve essere capace di farsi da parte e lasciare spazio d'azione al  padre; deve permettere al marito di assumere le proprie responsabilità nell’educazione del bambino e non farlo sentire inadeguato.
Spesso assistiamo alla nascita di coppie simboliche dove la donna tende ad esser donna, madre e padre.
In questo modo i bambini crescono senza diventare veramente grandi, senza avere una differenziazione di ruoli,un modello dove rispecchiarsi. Come si può pretendere di “formare” un adulto se nella sua crescita un bambino non ha un giusto modello a cui far riferimento?
Un uomo deve fare il padre e il marito; il legame con la madre è fondamentale, ma anche quello di un padre è importantissimo. La protezione che trasmette un padre al proprio bambino è diversa da quella che gli trasmette la madre.
La madre deve evitare di assumersi tutte le competenze del ruolo educativo e se lo fa chiedersi il perché: “Perché non lascio spazio educativo al padre dei miei figli?” Non c’è un’unica risposta, le risposte sono molteplici a seconda della coppia, ma di sicuro esiste un denominatore comune: la mancanza di fiducia nel proprio partner. Un buon padre dal canto suo, deve aiutare la donna a tagliare il legame simbiotico con il proprio figlio,deve fare il marito e non permettere che si crei la nuova coppia madre-bambino, la coppia è formata dall’uomo e dalla donna, il figlio è il frutto d’amore di entrambi e non di uno solo.
La coppia è la fusione di due individui diversi, ognuno con la propria storia che, giorno dopo giorno, si modifica formando un’unità che non annulla l'autonomia di ognuno, ma ne rinforza la complicità.

martedì 3 maggio 2011

Riflessioni...




Spesso si ascolta solo quello che le persone raccontano verbalmente, esprimendo un giudizio che quasi sempre non corrisponde al vero; è la superficialità e il bisogno di interpretare l’altro che porta l’essere umano a trarre conclusioni erronee sul modo di essere delle persone.

Se mi fermassi solo su ciò che una famiglia o un bambino mi racconta verbalmente, non potrei capire realmente i loro bisogni o esigenze.

A volte una famiglia o una coppia, se osservata superficialmente può apparire perfetta al punto da scatenare sentimenti di gelosia ed invidia tra le persone vicine, ma non sempre è così….Tempo fa ho incontrato una famiglia proprio di questo tipo: l’immagine che rifletteva era quella di una famiglia equilibrata, dove le relazioni tra madre, padre e bambino parevano “pulite”. In realtà osservando il linguaggio verbale, paraverbale nel loro modo di relazionare,.emergevano diverse incoerenze comportamentali che confondevano il bambino rendendolo estremamente auto centrato, con conseguenti difficoltà a giocare nel gruppo dei pari.

La regina del focolare era la madre che cercava e, spesso riusciva ad avere, le redini della famiglia. Nel parlare con lei si aveva l’impressione che tutto il mondo fosse sulle sue spalle sia in famiglia che al lavoro.

Il problema era che questa donna cercava di sopperire alla sua assenza fisica con mille espedienti che rendevano la vita del bambino incredibilmente complicata.

Un esempio era la continua incoerenza tra i messaggi verbali e quelli corporei; lo sgridava, pretendendo che lui seguisse le “sue regole, il suo “volere” usando un tono impositivo e di comando, ma seguito a volte da una postura morbida, di non autorevolezza.

Il desiderio di “credersi” una famiglia aristocratica forse la spingeva ad assumere un comportamento che probabilmente non era il suo.

Il poco tempo che aveva a disposizione per suo figlio lo investiva sul come ci si doveva comportare a tavola, al ristorante, in società.

Si presentava come una donna molto rigida, ferma nelle sue convinzioni, fissata con la pulizia, per poi cadere in comportamenti che dimostravano esattamente il contrario.

Il suo comportamento non era più quello di una persona sicura e ferma nelle sue convinzioni.

Tra lei e il marito c’era poca comunicazione. Parlavano molto, ma non comunicavano.

Il marito apparentemente poteva risultare in una posizione one-down rispetto alla moglie, ma in effetti non era così. Era solo una strategia per mantenere un equilibrio nella coppia lasciando alla moglie l’idea di esser lei a gestire il menage familiare.
Nei colloqui, il marito, solo una volta ha dichiarato apertamente di esser in disaccordo con la moglie, le altre volte il disaccordo si percepiva dal suo linguaggio paraverbale, dal suo esserci, ma al contempo non esserci, quasi perso nei suoi pensieri.

Con il bambino era più permissivo ed elastico soprattutto riguardo le “regole” fissate dalla moglie, mentre lui caratterialmente era diverso, non amava molto le etichette e i vincoli dettati dal bon ton pur essendo una persona estremamente educata.

Tendeva a giustificare sempre il comportamento del bambino, minimizzando i suoi capricci, ma dal modo in cui raccontava si capiva che il suo chiedere non era dettato dal voler un consiglio, ma da una conferma del suo agire pur sapendo che non era l’intervento educativo adatto. Parlava lo stesso “linguaggio paraverbale” della moglie, sfuggiva come colui che sa qual è la verità, ma non la vuol vedere.

Il bambino invece era la riproduzione della madre. Un bambino individualista che cercava di fare quello che voleva. A volte non ascoltava, camminava sulle punte e non guardava negli occhi quando gli si parlava. Raramente cercava il contatto fisico, sembrava volesse far credere che non gli interessasse.

Non era un bambino libero di essere sé stesso.

Se giocava da solo era creativo, tranquillo ed organizzato, ma con gli altri bambini era prepotente ed egoista. Le grosse difficoltà erano nello stare in gruppo, non essendo abituato a condividere.

Pertanto un’educazione con linee pedagogiche differenti e a volte incoerenti tra loro, (la mamma lo educava in un modo, il papà in un altro, la baby sitter in un altro ancora, la scuola….ognuno seguiva una sua modalità educativa) mandano il bambino in confusione. Per quanto il punto di riferimento alla fine per lui era comunque la mamma.













lunedì 18 aprile 2011

L'arte grafica come dialogo terapeutico





Il gioco simbolico ed il disegno sono sia un segno dell’evoluzione del bambino, sia uno strumento per la sua evoluzione: la percezione, la memoria, la creatività vengono influenzate da questa attività rappresentativa.


La psicoterapia d’espressione si basa sulla possibilità data al soggetto (disadattato e non) di esprimersi liberamente senza pensare di rendere cosciente ciò che si esprime.
Il fanciullo, con l’uso della pittura, si accorge del suo potenziale creativo imparando ad affrontare la propria insicurezza, i propri sensi di colpa e la propria instabilità interiore trovando nell’arte un compenso ai suoi problemi sociali o familiari.
Nel dialogo terapeutico l’artegrafica aiuta il cliente a superare le difficoltà relazionali iniziali, dove il terapeuta può essere vissuto come il genitore o l’istituzione.
Il linguaggio del disegno e della pittura è sicuramente più rivelatore del contenuto espressivo conscio ed inconscio rispetto a quello verbale poiché, il bambino soprattutto, non è costretto ad esprimersi in modo corretto e comprensibile, rischiando di tacere là dove non riesce a trovare la giusta espressione linguistica. Sia nel disegno del normale che in quello dello psicotico, ad esempio, avviene un processo di proiezione, ma il disegno “finito” presenta delle differenze: l’opera dello psicotico è più difficilmente comprensibile poiché subisce un processo di destrutturazione ed allontanamento dalla realtà che porta all’incomunicabilità; mentre nell’individuo normale il collegamento tra lo e la realtà c’è e quindi anche il controllo sui processi primari.
L’ansia ad esempio, è la sindrome culturale della psicosi e della nevrosi: nasce dalla paura della morte, del castigo, dall’insicurezza del propri stato. Ci sono delle manifestazioni psichiche in cui l’ansia si esprime direttamente nel disegno perché il soggetto non ha sviluppato le difese per contenerla come avviene per quei soggetti che invece associano l’ansia a fobie che ne costituiscono l’argine. I bambini hanno molte paure definibili normali, come ad esempio: il buio, il chiuso, l’acqua… ma se la paura è una fobia ossessiva come il continuo lavarsi le mani, perché ossessionato dallo sporco, nel disegnarsi si rappresenterà senza mani o con mani a palla così da non toccare nulla.
Altra caratteristica tipica dell’ossessivo, è di non riuscire nel disegno, a cambiare l’atteggiamento e la posizione dei personaggi in rapporto all’azione che stanno facendo o il collocare tutte le figure presenti su un’unica linea.
Il comportamento dell’individuo ansioso può esprimersi sia in forma inibitoria, sia in forma aggressiva.
L’ansioso inibito tende a disegnare figure piccole, centrate, simmetriche dal tratto leggero ed il nero è il colore preferito.
L’ansioso eccitabile invece, disegna simboli di forza e aggressività essendo esso un soggetto aggressivo; i personaggi sono guerrieri o uomini armati, il tracciato è pesante, i colori vividi. Sono persone che passano dall’affettuosità all’estrema aggressività, per questo i simboli grafici usati sono “spinosi” come i cactus, gli arti pungenti, le bestie feroci, i mostri…

I bambini isterici invece, si caratterizzano per l’avidità affettiva ed il continuo bisogno di dipendenza, i loro disegni presentano la figura umana nel centro del foglio con la testa grossa e ben sviluppata, segno di immaturità ed è tanto più grande quanto più il soggetto è giovane.

I capelli sono spesso lunghi con fiocchi, le ciglia folte e i vestiti ricchi di particolari, a sottolineare l’aspetto narcisistico della loro personalità. Il corpo viene disegnato piccolo con braccia e gambe corte ed essendo il veicolo di rapporti con l’esterno, questo sottolinea le difficoltà degli isterici nello stabilire rapporti sociali. Le case vengono disegnate con giardini, fiori, animali, cancelletti…hanno degli ornamenti tali da voler attirare l’attenzione su di sé, da esser continuamente considerato e apprezzato per non cadere nell’ansietà.

Il senso di colpa può nascondere impulsi aggressivi che il bambino vive verso i desideri negativi che prova per i genitori o i fratelli; egli teme che essi si accorgano dei suoi pensieri nascosti e lo castighino. Può succedere che il senso di colpa nasca da desideri sessuali repressi dalla morale familiare e nel disegno, il disagio per le pratiche sessuali si vede nel raffigurare i personaggi solo con la testa o solo la parte superiore del corpo, nascondendo la parte inferiore magari dietro un tavolo.

La parte del corpo nascosta è connessa a qualche conflitto o problematica del disegnatore.

La colpevolizzazione è espressa con un tratto insicuro, con soggetti macabri, gli interni delle case squallidi con colori freddi e poche aperture, sembrano case abbandonate tipiche di una persona depressa.

Il depresso si disegna piccolo, con le membra avvicinate all’asse del corpo e a volte l’espressione del viso sgradevole.

Come già precedentemente accennato, nel soggetto con ritardo mentale, i disegni mantengono a lungo le tematiche e la spontaneità del bambino piccolo, i simboli sono semplici e la censura meno complessa da individuare. Questo perché il loro sviluppo mentale è più lento.

La persona debole mentalmente, soffre di complessi d’inferiorità connessi alla sua incapacità a risolvere questioni pratiche che invece i suoi coetanei risolvono senza problemi; è opportuno quindi, osservare le produzioni grafiche di questi soggetti tenendo conto della loro fragilità psicomotoria, del disadattamento sociale e scolastico.

Le conseguenze delle difficoltà relazionali e sociali di questi individui emergono proprio nel disegno.












domenica 10 aprile 2011

il disegno....il dialogo....la comunicazione




L’esigenza rappresentativa che guida la libera attività espressiva nasce dal desiderio di far parte del mondo esterno, di raccontare ad altri le proprie esperienze.


Io credo che l’idea del disegno, come cura è un mezzo possibile per far uscire il malessere con un foglio ed una matita attraverso la costruzione di un dialogo terapeutico che, con tanti colori e molta immaginazione, può svelare i bisogni e i sogni nascosti che rendono possibile la guarigione dell’individuo.
Il disegno permette di tradurre rendendolo visibile, l’eventuale disagio o problema che l’individuo vive a livello inconscio; permette di raccontarsi cercando di trasformare i drammi in soluzioni.
Dal momento che il bambino o l’adolescente attraverso il disegno parla delle sue ansie, delle sue scoperte, delle sue paure, del suo vissuto interiore, è necessario che esso venga collocato ed interpretato all’interno di un setting terapeutico. La comunicazione del disegno passa attraverso le emozioni, sia quelle che suscita nel soggetto, sia quelle che suscita nel consulente. Esso ci porta a guardare le cose con gli occhi del cliente attivando un coinvolgimento e vicinanza interiore. Lavorare con il disegno significa creare una relazione che apre la porta del mondo dell’altro.
Il fare domande dà la possibilità al bambino o adolescente, di farsi vedere oltre i suoi comportamenti strani e faticosi; permette di capire dov’è l’origine del disagio.
Il ri-raccontare attraverso le immagini aiuta a rendere visibile la “crepa” creatasi nel mondo interno del soggetto.
La difficoltà del consulente sta nel vedere e nel tradurre ciò che l’individuo comunica con l’ausilio dei simboli, dei colori e delle associazioni mentali, tenendo conto che il linguaggio simbolico è il cammino più breve per la conoscenza di noi stessi.
Le potenzialità terapeutiche del disegno sono legate al contesto scelto, dentro al quale qualcuno narra qualcosa a qualcun altro, racconta di sé, chiede di uscire da uno stato di sofferenza per andare verso un altrove.
Il disegno è associato alla parola e al dialogo che lo racconta, ma solo in un secondo momento.
Il disegno narrato può essere successivamente modificato e trasformato, al fine di ricostruire una nuova storia che potrebbe portare all’autoguarigione.
Produrre un disegno ha l’obiettivo di facilitare sia l’espressione di sé, sia la relazione con il mondo. I simboli ed i colori esprimono pensieri ed emozioni invisibili.
Inoltre, attraverso una serie di disegni sia spontanei che proposti secondo ipotesi precise, è possibile attivare un processo di autoconoscenza andando a trasformare situazioni problematiche in soluzioni possibili, ma soprattutto rappresentabili. Il bambino può passare così, dal ruolo di vittima a quello di protagonista.
Un esempio è dato dai giovani psicotici che vivono “un dentro”, un isolamento personale che forse, potrebbero spostare verso “un fuori” proprio con l’utilizzo dell’attività grafico-pittorica.
Osservare la relazione dei disegni tra loro, la relazione del bambino/adolescente con la famiglia, con gli amici, con la scuola, permette di comprendere ed eventualmente modificare il blocco o malessere esistente per poi iniziare un percorso di risoluzione.






mercoledì 23 marzo 2011

il linguaggio del corpo nella malattia....la psicosomatica





L’ammalarsi e il guarire rappresentano gli eventi estremi di un processo interno di auto organizzazione dell’organismo definito omeostasi.
Fu Freud con gli studi sull’isteria a dimostrare come l’apparato psichico abbia il potere di creare dei sintomi anche gravi a carico del corpo.

L’influenza quindi dell’apparato psichico sulla salute e sulla malattia del soma non è generica ma simbolica. Il corpo parla attraverso modalità simboliche sia quando è sano che quando è malato, permettendo all’inconscio di rivelarsi attraverso i sogni, i lapsus....

L’inconscio parla attraverso il corpo dicendo anche quelle cose che l’io non direbbe mai, perchè censurabili, ed è per questo che i sintomi, che si manifestano nell’individuo a livello somatico, sono messaggi della sua dimensione psichica che necessitano di essere interpretati per capirne l’origine.

W. Reich nel suo testo “L’analisi del carattere”, analizza come alcuni lati patologici del carattere si manifestano non solo attraverso modalità psicologiche e relazionali, ma anche attraverso corrispondenti atteggiamenti corporei determinati ad esempio dalla rigidità posturale e dai blocchi muscolari che traducono nel corpo la stessa coazione esistente nel pensiero.

Egli si chiede se un torace rigonfio, una mascella tesa, delle gambe deboli non siano indicazioni precise di un vissuto emozionale.

Studiare le difese somatiche si rivela uno strumento più efficace che attaccare le difese psichiche dell’individuo, confermando l’ipotesi dell’esistenza di un’identità funzionale tra difese psichiche e corporee.

Il carattere è l’espressione unitaria della funzione dell’individuo sia in campo psichico che in quello somatico; esso è l’atteggiamento fondamentale con cui l’individuo affronta la vita.

In sintesi, è possibile determinare il carattere di una persona studiando il suo comportamento oppure analizzando le attitudini del corpo quali si rivelano nella forma e nel movimento.

La struttura corporea e caratteriale sono due aspetti del modo di essere di un individuo.

Se il carattere è la risultante di forze opposte (guida e difesa dell’Io), separare l’Io dalla struttura caratteriale nella quale è incorporato significa aprire la strada ad un cambiamento della struttura fisica.

“Leggere” un corpo permette di percepirne gli squilibri e le tensioni muscolari ristabilendone l’energia; sciogliere una tensione muscolare vuol dire liberare un ricordo, un affetto…permettendo di ri-utilizzare l’energia bloccata.

L’uomo tende a verbalizzare e razionalizzare a scapito del vissuto del corpo e degli affetti; si tratta di decifrare ciò che è espresso dal corpo, il trauma che può nascondere e la localizzazione delle ansietà dalle quali involontariamente si difende.

Reich e Lowen valorizzano il corpo e le sue manifestazioni sottolineando come esse non obbediscano solo alle leggi di natura istintuale ma anche ai principi di natura simbolica; ogni organo possiede un ruolo funzionale e biologico ma anche uno simbolico corrispondente.

Cosa potrebbe voler comunicare l’inconscio del paziente attraverso la malattia, vista come forma particolare del linguaggio del corpo?

Per la psicosomatica, la malattia può rappresentare un momento di riflessione sulla situazione esistenziale dell’individuo; essa cerca “le ragioni della malattia “.

Ogni apparato del nostro corpo oltre ad essere una parte inserita nel totale e complesso funzionamento dell’individuo, rappresenta l’oggettivazione di una funzione indispensabile alla vita.
Il corpo, attraverso la malattia, comunica segnalando all’individuo un conflitto al fine di indurlo a ricercarne la causa e l’eventuale soluzione.
Il corpo parla attraverso la malattia invitando l’Io ad una presa di coscienza; l’organo leso rinvia al valore della sua funzione.

Una parte della comunicazione del nostro corpo inoltre, passa attraverso il tatto ovvero la pelle.
La pelle, organo di superficie del corpo umano, rappresenta l'involucro protettivo e insieme di contatto con il mondo esterno.
Struttura di confine fra il sé ed il non sé, organo di senso e organo di fondamentale importanza nell'omeostasi, è forse più di ogni altra parte del corpo implicata nelle vicende psico-emotive dell'individuo.
Già osservando con attenzione un bambino nei primi mesi di vita, non possiamo non avvertire l'intensità comunicativa dei reciproci contatti cutanei tra madre e bambino in termini di carezze, abbracci e vari altri tipi di stimolazioni ed esplorazioni.
Osservazioni sul bambino piccolo e correlate indagini psicoanalitiche hanno sottolineato quanto sia importante la pelle come fattore di organizzazione dell'identità e delle funzioni dell'Io.
Cambiamenti anche di lieve entità, come il calore o la sudorazione delle mani, possono essere un importante segnale di vissuto emozionale, ed essere parte integrante della cosiddetta comunicazione non verbale.

Non ci si deve stupire se anche molte malattie dermatologiche, del tutto o in parte, possano essere correlate alla presenza di conflitti psicologici che proprio attraverso la pelle possono esprimersi ed esteriorizzarsi. Si potrebbe affermare che la pelle è, insieme agli occhi, lo specchio dell'anima.




 

domenica 13 marzo 2011

il linguaggio del corpo....la vera comunicazione




Il linguaggio del corpo è la dimensione comunicativa primordiale, senza di esso infatti, non sarebbe possibile la vita affettiva, la relazione sessuale, l’interazione tra mamma e bambino. Per comprendere l’importanza del linguaggio corporeo è utile fare alcune considerazioni:

· La comunicazione interumana è presente prima della nascita e durante la vita intrauterina, il bambino comunica con la madre attraverso i sensi e il movimento.

· Il rapporto tra il bambino e i suoi simili è un rapporto che si esprime a livello corporeo, la parola verrà in un secondo momento.

Nel periodo fra i 2 e i 6 mesi, il bambino costruisce le fondamenta della sua identità ovvero, di ciò che sarà come individuo. Tale identità è prima di tutto un’identità corporea; costruire l’identità psicologica vuol dire definire un proprio spazio diverso dagli altri ed è proprio il corpo che permette di delineare tale spazio poiché esso è un’entità che occupa un luogo.

La comunicazione è quindi anche un evento corporeo, il neonato riceve e conosce il mondo tramite il corpo; l’attività di un bambino fin dai primi giorni di vita è un’esperienza primariamente corporea, egli percepisce il suo “agire” all’interno delle coordinate spazio/tempo costruendo un senso del sé, iniziando ad esistere come entità autonoma psicofisica.Il linguaggio del corpo è il linguaggio del naturale e corretto funzionamento dei suoi organi.

Oggi si tende a dissociare il corpo dalla dimensione psichica, ma è proprio attraverso il corpo che spesso la nostra psiche comunica. E’ il come un essere umano “è” nel mondo che esprime il suo esser dotato di coscienza. Il corpo coniuga messaggi di rilevante importanza psicologica grazie alle possibilità d’espressione quali la mimica, la gestualità, la postura…

Uno dei principali limiti alla nostra capacità di capire gli altri è dovuto al “filtro” del linguaggio verbale. La parola è uno strumento utilissimo per trasmettere delle informazioni, ma la comunicazione non si limita all’aspetto verbale,;comprende anche altri aspetti, quali i gesti, le espressioni, i movimenti, gli atteggiamenti, l’intonazione della voce, gli odori.

Questi aspetti danno vita alla comunicazione non verbale.

Quando la comunicazione avviene fra persone che si conoscono, è importante prestare attenzione, soprattutto, alla comunicazione non verbale che rappresenta l’aspetto fondamentale del processo comunicativo, poiché i soggetti comunicando vanno al di là delle semplici parole. E’ infatti sufficiente anche un leggero cambiamento nel tono della voce, un gesto, per comprendere angolature e sfumature che le parole da sole non riescono ad esprimere. I canali non verbali fanno trasparire le emozioni, le sensazioni, i sentimenti provati dalla persona e gli atteggiamenti e i comportamenti da lei adottati.

Oltre a questi aspetti, la comunicazione non verbale comprende anche il linguaggio del corpo; l’uomo comunica anche attraverso il corpo. Il linguaggio del corpo si può distinguere in statico e dinamico. Il linguaggio statico comprende: volto, voce, conformazione fisica, abbigliamento, ornamenti, trucco, taglio dei capelli e della barba….

Il linguaggio dinamico comprende: espressioni del volto, sguardo, espressività della voce,posizioni e gesti. E’ importante fare distinzione tra: volto ed espressioni del volto; tra voce ed espressività; tra conformazione fisica e posizioni/gesti. Una persona con volto, voce e conformazione fisica non belli potrebbe – per posizioni e gesti- esser piena di fascino.

La comunicazione non verbale ci aiuta a stabilire un reale contatto con l'altro.....














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lunedì 28 febbraio 2011

La Comunicazione, parte fondamentale del nostro essere nel mondo



La comunicazione è un processo di scambio di informazioni e di influenzamento reciproco che avviene in un determinato contesto.

La prima teorizzazione importante del peso costitutivo della comunicazione si trova in un celebre aforisma di Nietzsche, in cui si legge che “laddove il bisogno, la necessità hanno lungamente costretto gli uomini a comunicare fra di loro, a comprendersi l’un l’altro in maniera rapida e sottile, esiste alla fine un eccesso di questa forza e arte della comunicazione, per così dire una facoltà che si è gradualmente potenziata e che aspetta ora soltanto un erede che ne faccia un prodigo uso (…) è lecito procedere alla supposizione che la coscienza in generale si sia sviluppata sotto la pressione del bisogno di comunicazione.”

Il tema della comunicazione affascina l’uomo proprio perché è parte di se stesso. Essere e comunicare sembra siano sulla stessa lunghezza d’onda, la comunicazione è un aspetto dell’essere, perché l’esistere e la vita stessa sono comunicazione. Ma ne è anche una esigenza perché il soggetto in quanto esistente ha bisogno di uscire da sé, di manifestarsi, di dare segno della sua presenza, di entrare in rapporto con gli esistenti della propria e delle altre specie viventi. Il presupposto della comunicazione è la necessità di comunicare.”

In generale, per comunicazione s’intende uno scambio di informazioni tra un’emittente e un ricevente. Il primo è colui che emette il messaggio, il secondo è colui che lo riceve.

Non bisogna però ridurre la comunicazione ad un semplice scambio passivo, tutt’altro, essa è dinamica, attiva, infatti, il destinatario del messaggio diventa, a sua volta, un mittente poiché risponde al messaggio per dimostrare all’altro interlocutore di aver compreso ciò che gli è stato trasmesso. Tale processo viene definito feedback (informazione di ritorno o retroazione).

. ‘Non si può non comunicare.’ Così esordisce P. Watzlawick a proposito della comunicazione e fa di questa affermazione il primo assioma fondamentale della comunicazione, cioè il primo principio su cui essa si fonda. Tale convinzione deriva dal fatto che tutta la realtà che ci circonda comunica in mille modi differenti.

Lla comunicazione si basa su una componente contenutistica e su una relazionale. Perciò essa non può essere considerata oggettiva, ossia basata esclusivamente sui fatti che rappresentano soltanto un aspetto della comunicazione, ma deve considerare tutto ciò che essa comporta, quindi, anche gli stati d’animo, i sentimenti, le emozioni che caratterizzano gli interlocutori, i modi in cui si manifesta la comunicazione. Tenendo conto di quanto appena detto, la comunicazione può essere divisa in due branche: la Comunicazione verbale e la Comunicazione non verbale

La prima avviene attraverso l’uso della parola o dei gesti appresi; la seconda invece, è frutto di messaggi involontari del corpo.

La comunicazione verbale e la comunicazione non verbale seguono regole completamente diverse. La parola, infatti, è un segno stabilito per convenzione all’interno di un gruppo, il gesto o comunque il linguaggio corporeo è qualcosa di personale, esprime il reale modo di essere dell’individuo.




[1] “La pragmatica della comunicazione umana” di Paul Watzlawick