mercoledì 25 maggio 2011

Riflessioni sulla cura come Io/ Tu......





Se nell’aver cura si realizza il superamento di una prospettiva egoica a vantaggio di una visione universale con la “relativizzazione” di noi stessi, non si può non focalizzare l’attenzione sulla dimensione relazionale con il mondo dell’Altro.
Le relazioni che si creano tra le persone sono il risultato di uno sforzo finalizzato al prender coscienza di noi stessi, al nostro essere insieme all’altro per raggiungere quella visione universale grazie alla quale saremo capaci di metterci al posto degli altri, superando la nostra parzialità.

Parlare di relazione, prendendo coscienza di essere insieme all’altro nel senso Heideggeriano del fianco a fianco o secondo il pensiero di Levinàs del faccia a faccia, dell’Io/Tu ci permette di aprire la strada verso il confronto come scambio, con il vissuto individuale di ognuno di noi.

Il ponte che lega noi e l’altro è la relazione, non si può scindere, infatti, la cura di sé dalla cura del noi (relazionale). Attraverso lo sguardo dell’Altro ci accorgiamo che non possiamo stare soli e che per giungere ad un sé libero è necessaria la sua mediazione. Epicuro vede l’ascolto come una pratica di cura, come la sospensione di noi stessi per cogliere così “l’ essenza interiore” dell’Altro.

La relazione di cura che può nascere tra infermiere e paziente, ha delle analogie con la relazione materna, ma senza legami affettivi; le persone coinvolte sono padroni delle proprie “storie” ma, al contempo si nutrono delle storie degli altri creando così una sorta di osmosi, un’idea di relazione complementare dove il malato occupa una posizione di dipendenza verso l’infermiere visto come l’anello di congiunzione tra soggetto e medico, tra malattia e guarigione.

La capacità di andare oltre un Io (infermiere) che comunica i propri saperi unilateralmente all’Altro (paziente) visto come colui che subisce, è la base per una buona pratica di cura nella quale i singoli individui cooperano per il raggiungimento di un unico scopo: un vero processo di guarigione. Non si può curare il corpo senza curare l‘anima.

Pensare ad una vera relazione amicale è quasi utopico, l’amicizia si basa su valori che secondo me oggi, sono offuscati dalla competizione e dall’attenzione per l’individuo nella singolarità del suo essere. L’onestà, la fiducia, la sincerità sono valori impegnativi che per essere applicati ci costringono a fermarci a riflettere sul nostro Essere nel mondo, nel senso di contribuire ad un benessere relazionale che ci permette di capire e forse perdonare la persona che ci sta accanto e chiamiamo amica, ma tutto questo può creare sensi di colpa e quindi ancora una volta, portarci a guardare con consapevolezza il nostro Sé per attuare un percorso interiore volto all’autenticità del nostro modo di condurci nel mondo.

Etica della cura significa mettere continuamente sotto esame la propria vita ed esercitarsi a mantenere una direzione di pensiero ed azione conforme alla scelta esistenziale fatta in qualsiasi campo si operi: educativo, giuridico, politico, religioso.

mercoledì 18 maggio 2011

La cura come essenza d'essere.....

Tutti hanno la necessità vitale di ricevere e dare cura, poiché la cura è l’essenza d’essere, ovvero di esistere. Sembra quasi che l’individuo attraverso la cura di sé si materializzi, dia un senso al proprio essere nel mondo.

In ogni epoca gli uomini hanno cercato di rispondere alle domande sull’origine della nostra esistenza: “Da dove veniamo?” Ma è nel periodo ellenistico che lo sguardo viene spostato sul soggetto nel suo divenire: l’attenzione è rivolta non più sulla ricerca di un dove, ma su come l’uomo possa essere felice. Epicuro sostiene che “Vuota è la parola che non cura i mali dell’anima”, i filosofi ellenistici si interrogano su come l’uomo possa essere felice; iniziando a sentire il bisogno di un sé individuale di cui aver cura dove la cura è la cosa essenziale all’esistenza dell’uomo per star bene.

Heidegger sostiene che la cura di sé è il modo fondamentale dell’essere dell’esserci, è il modo attraverso il quale l’uomo può esistere, esserci, ma esserci nel senso di farne parte; formare il proprio animo attraverso un lavoro su sé stessi che coinvolga non solo il pensiero, ma anche la sensibilità, la volontà e le emozioni attraverso un continuo esercizio di rimessa in discussione di sé e del proprio rapporto con gli altri, scegliendo liberamente di essere quel “sé stesso”.

Io credo che il concetto di cura inteso da Heidegger stia riemergendo nella nostra società come un bisogno essenziale per dar un senso al nostro mondo globalizzato che si affida ciecamente alla tecnica con la convinzione di essere nel giusto, pur sentendosi un mondo miserevole in quanto privo di senso.

Prendersi cura di sé significa fermarsi, ascoltarsi ed ascoltare l’ALTRO dove l’altro può essere:la vita,le relazioni sociali, l’educazione, il desiderio, la responsabilità, il corpo e l’universo interiore al quale apparteniamo. Un percorso nella direzione della cura di sé, della consapevolezza, dell’autenticità e del confronto per interrogarsi su come si sta al mondo, cercando un senso ed imprimendo un direzione al proprio condursi è necessario come processo formativo per ogni individuo.
Parlare di una svalutazione della cura ritengo sia banale e ripetitivo.E’risaputo infatti, che nella nostra cultura c’è una svalorizzazione della cura e delle relative attività, ma il punto su cui porre l’attenzione è il perché esiste ancora questa concezione riduttiva del ruolo di chi svolge attività di cura: quale la causa e come attuare il cambiamento.

Le attività di cura sono attività che richiedono grande sensibilità e passione ed investono il lavoratore di una responsabilità che va oltre il far quadrare un bilancio economico aziendale poiché, il fulcro di tali attività non è la produzione, il progresso tecnologico, ma l’individuo nella totalità del suo essere. L’essere umano è fatto di corpo, spirito, ragione e sentimento: come possibile non elevare a figure di prestigio un’insegnante, un educatore, un infermiere?

Se questo non accade credo che la responsabilità in parte sia da attribuire al nostro sistema culturale che non ne riconosce il giusto valore.

martedì 10 maggio 2011

Il cambiamento della famiglia




Il cambiamento subito dalla società negli ultimi anni ha portato le famiglie ad una metamorfosi che spesso crea confusione nei ruoli di padre e di madre; si osservano coppie dove la madre assume sia il ruolo materno che quello paterno, portando il marito ad essere solo un componente utile a stabilire una completezza fittizia del nucleo famigliare.





Nelle generazioni precedenti, nelle famiglie patriarcali il ruolo del padre era ben definito; era colui che lavorava e portava avanti la famiglia, era l’archetipo del cacciatore. La madre era colei che si occupava dei figli e della conduzione della casa.

Oggi le donne lavorano, sono in carriera, indipendenti e autonome al punto di cadere nell’errore di sostituirsi nell’educazione dei propri figli al marito anche dove esso è presente. Madre e padre al contempo e ….la figura maschile? Dov’è? Madre e figlio inizialmente sono tutt’uno, ma il distacco è necessario per l’equilibrio della famiglia. Una buona madre deve essere capace di farsi da parte e lasciare spazio d'azione al  padre; deve permettere al marito di assumere le proprie responsabilità nell’educazione del bambino e non farlo sentire inadeguato.
Spesso assistiamo alla nascita di coppie simboliche dove la donna tende ad esser donna, madre e padre.
In questo modo i bambini crescono senza diventare veramente grandi, senza avere una differenziazione di ruoli,un modello dove rispecchiarsi. Come si può pretendere di “formare” un adulto se nella sua crescita un bambino non ha un giusto modello a cui far riferimento?
Un uomo deve fare il padre e il marito; il legame con la madre è fondamentale, ma anche quello di un padre è importantissimo. La protezione che trasmette un padre al proprio bambino è diversa da quella che gli trasmette la madre.
La madre deve evitare di assumersi tutte le competenze del ruolo educativo e se lo fa chiedersi il perché: “Perché non lascio spazio educativo al padre dei miei figli?” Non c’è un’unica risposta, le risposte sono molteplici a seconda della coppia, ma di sicuro esiste un denominatore comune: la mancanza di fiducia nel proprio partner. Un buon padre dal canto suo, deve aiutare la donna a tagliare il legame simbiotico con il proprio figlio,deve fare il marito e non permettere che si crei la nuova coppia madre-bambino, la coppia è formata dall’uomo e dalla donna, il figlio è il frutto d’amore di entrambi e non di uno solo.
La coppia è la fusione di due individui diversi, ognuno con la propria storia che, giorno dopo giorno, si modifica formando un’unità che non annulla l'autonomia di ognuno, ma ne rinforza la complicità.

martedì 3 maggio 2011

Riflessioni...




Spesso si ascolta solo quello che le persone raccontano verbalmente, esprimendo un giudizio che quasi sempre non corrisponde al vero; è la superficialità e il bisogno di interpretare l’altro che porta l’essere umano a trarre conclusioni erronee sul modo di essere delle persone.

Se mi fermassi solo su ciò che una famiglia o un bambino mi racconta verbalmente, non potrei capire realmente i loro bisogni o esigenze.

A volte una famiglia o una coppia, se osservata superficialmente può apparire perfetta al punto da scatenare sentimenti di gelosia ed invidia tra le persone vicine, ma non sempre è così….Tempo fa ho incontrato una famiglia proprio di questo tipo: l’immagine che rifletteva era quella di una famiglia equilibrata, dove le relazioni tra madre, padre e bambino parevano “pulite”. In realtà osservando il linguaggio verbale, paraverbale nel loro modo di relazionare,.emergevano diverse incoerenze comportamentali che confondevano il bambino rendendolo estremamente auto centrato, con conseguenti difficoltà a giocare nel gruppo dei pari.

La regina del focolare era la madre che cercava e, spesso riusciva ad avere, le redini della famiglia. Nel parlare con lei si aveva l’impressione che tutto il mondo fosse sulle sue spalle sia in famiglia che al lavoro.

Il problema era che questa donna cercava di sopperire alla sua assenza fisica con mille espedienti che rendevano la vita del bambino incredibilmente complicata.

Un esempio era la continua incoerenza tra i messaggi verbali e quelli corporei; lo sgridava, pretendendo che lui seguisse le “sue regole, il suo “volere” usando un tono impositivo e di comando, ma seguito a volte da una postura morbida, di non autorevolezza.

Il desiderio di “credersi” una famiglia aristocratica forse la spingeva ad assumere un comportamento che probabilmente non era il suo.

Il poco tempo che aveva a disposizione per suo figlio lo investiva sul come ci si doveva comportare a tavola, al ristorante, in società.

Si presentava come una donna molto rigida, ferma nelle sue convinzioni, fissata con la pulizia, per poi cadere in comportamenti che dimostravano esattamente il contrario.

Il suo comportamento non era più quello di una persona sicura e ferma nelle sue convinzioni.

Tra lei e il marito c’era poca comunicazione. Parlavano molto, ma non comunicavano.

Il marito apparentemente poteva risultare in una posizione one-down rispetto alla moglie, ma in effetti non era così. Era solo una strategia per mantenere un equilibrio nella coppia lasciando alla moglie l’idea di esser lei a gestire il menage familiare.
Nei colloqui, il marito, solo una volta ha dichiarato apertamente di esser in disaccordo con la moglie, le altre volte il disaccordo si percepiva dal suo linguaggio paraverbale, dal suo esserci, ma al contempo non esserci, quasi perso nei suoi pensieri.

Con il bambino era più permissivo ed elastico soprattutto riguardo le “regole” fissate dalla moglie, mentre lui caratterialmente era diverso, non amava molto le etichette e i vincoli dettati dal bon ton pur essendo una persona estremamente educata.

Tendeva a giustificare sempre il comportamento del bambino, minimizzando i suoi capricci, ma dal modo in cui raccontava si capiva che il suo chiedere non era dettato dal voler un consiglio, ma da una conferma del suo agire pur sapendo che non era l’intervento educativo adatto. Parlava lo stesso “linguaggio paraverbale” della moglie, sfuggiva come colui che sa qual è la verità, ma non la vuol vedere.

Il bambino invece era la riproduzione della madre. Un bambino individualista che cercava di fare quello che voleva. A volte non ascoltava, camminava sulle punte e non guardava negli occhi quando gli si parlava. Raramente cercava il contatto fisico, sembrava volesse far credere che non gli interessasse.

Non era un bambino libero di essere sé stesso.

Se giocava da solo era creativo, tranquillo ed organizzato, ma con gli altri bambini era prepotente ed egoista. Le grosse difficoltà erano nello stare in gruppo, non essendo abituato a condividere.

Pertanto un’educazione con linee pedagogiche differenti e a volte incoerenti tra loro, (la mamma lo educava in un modo, il papà in un altro, la baby sitter in un altro ancora, la scuola….ognuno seguiva una sua modalità educativa) mandano il bambino in confusione. Per quanto il punto di riferimento alla fine per lui era comunque la mamma.